Un Paese, 6000 lingue
Viaggio nel Paese dei 6000 idiomi. Tra chi chiede che vengano insegnati a scuola e chi dice: è la lingua nazionale a essere in pericolo
Roberto Bianchini
Ivano faceva l'oste sui colli del trevigiano. Grande, grosso e buffo, la testa pelata e il naso a becco, sembrava uscito da una pagina di Carlo Goldoni. Ha girato il mondo per fare il suo mestiere, il Cavalier Ivano Mattiuzzo, parlando sempre e solo nel suo dialetto di Pieve di Soligo infarcito di visioni, improperi e sacramenti. Diceva che lo hanno sempre capito. Ora le cose stanno cambiando. Il poeta Andrea Zanzotto, che è dello stesso paese, si stupisce nel vedere che certe sue parole dialettali non vengono più capite dagli stessi abitanti: «il mio dialetto ormai risulta indecifrabile».
L'uso del dialetto infatti sta calando in tutta Italia, rileva l'Istat, proprio nel momento in cui in molte regioni si sta pensando di introdurlo a scuola, e il paese si divide sull'esame di dialetto per gli insegnanti e sui “test preselettivi” di cultura locale.
Perché conoscere i dialetti, secondo il presidente dell'Istituto di cultura delle lingue del Csr, Pierfranco Bruni, «è definire un processo storico e antropologico di una comunità, dal momento che i dialetti non sono strutture linguistiche minoritarie né lingue altre rispetto alla lingua italiana. Ma sono il vero tessuto di appartenenza a un territorio all'interno di un processo che punta rigorosamente alla difesa della cultura italiana. Quindi, rafforzano l'identità della lingua ufficiale di una nazione».
In Italia non c'è regione, città e persino paese che non abbia il suo dialetto. Da quello di Gizzeria, tipico di alcuni paesi calabresi, al Tabarkino parlato a Carloforte, in Sardegna. Fra gallo-italici del Nord, veneti, toscani, centrali, meridionali, siciliani, sardi, se ne contano la bellezza di seimila. Molto diversi l'uno dall'altro. Anche all'interno della stessa regione quando appaiono simili. In alcuni casi solo per accenti e inflessioni, come tra Palermo e Catania, in altri casi anche per le parole. Persino nelle isole della laguna di Venezia si parlano dialetti diversi: quello di Burano non è uguale a quello di Pellestrina.
Cantati da Porta e da Belli, da Trilussa e Pasolini, da Baffo e Marin, o messi in prosa da Camilleri, i “dialectos”, che non è spagnolo ma latino e greco, sono in realtà idiomi locali, “varietà linguistiche”, secondo gli studiosi. «Vere e proprie lingue», secondo il regista Maurizio Scaparro, teorico della “confusione dei linguaggi”, che nei suoi lavori ha spesso esaltato le due “lingue” ufficiali del teatro italiano, il napoletano e il veneziano. «Io credo che il dialetto rimanga una forza integra – spiega- il fatto è che sta cambiando il mondo, e che ai dialetti di base si stanno aggiungendo nuove lingue. Ma quello che mi preoccupa di più è che sta diminuendo l'italiano, nel senso che sono sempre di più quelli che lo parlano male, e lo stanno sostituendo con un semi-inglese da ragionieri. Ma perchè mai dobbiamo chiamare del welfare il ministro del lavoro e democratic party la festa dell'unità? Mi sa che c'è qualcosa che sta cambiando, sì, ma in male».
Quello che cambia, intanto, è l'uso del dialetto. Secondo l'Istat, l'utilizzo esclusivo del dialetto, soprattutto nell'ambito familiare, è diminuito «significativamente» nel tempo. In pochi anni si è praticamente dimezzato, passando dal 32% del 1988 al solo 16% del 2006. E' invece aumentato un “uso misto” di italiano e dialetto, e dal 2000 al 2006 è molto cresciuto l'uso esclusivo dell'italiano, sia in famiglia (45%) che con gli amici (48%), e specie con gli estranei: 72%. Il dialetto continua a essere parlato soprattutto in famiglia (16%), meno con gli amici (13%) e molto poco con gli estranei: appena il 5%. L'Istat segnala anche che l'uso esclusivo del dialetto cresce con l'aumentare dell'età (lo parla il 32% di chi ha più di 65 anni) e riguarda maggiormente «coloro che hanno un titolo di studio basso». Tra le regioni in cui il dialetto resiste meglio figura la Lombardia, dove un abitante su dieci, circa 800mila persone, parla abitualmente il dialetto in famiglia, e dove dal 2000 è cresciuto del 4% il numero di quelli che con gli estranei usano pressoché indifferentemente sia l'italiano che il dialetto.
Effetto dovuto, probabilmente, anche alle iniziative di partiti come la Lega, che al Nord sull'uso del dialetto hanno impostato da tempo una battaglia identitaria. Con epicentro, nel caso lombardo, la città di Bergamo, patria del ministro Calderoli, deve un abitante su dieci parla solo il bergamasco, dove il poeta Umberto Zanetti ha stilato una preziosa “grammatica bergamasca” e l'ingegner Giancarlo Giavazzi, che scrive nell'idioma orobico anche le presentazioni dei progetti e le ricevute ai clienti, si è sobbarcato l'immane fatica di tradurre in bergamasco nientemeno che le favole di Andersen, col risultato, dice lui, di «entusiasmare i ragazzini».
Ma è la scuola l'ultima vera frontiera della difesa del dialetto. Alle medie di Terno d'Isola, sempre in provincia di Bergamo, il dialetto si impara da anni. «Testi, poesie e film in bergamasco – spiega Luciano Ravasio, l'insegnante, - per raccontare la nostra campagna e le sue tradizioni». Altre lezioni in dialetto si svolgono regolarmente in Lombardia alle elementari di Torre Boldone, Bagnatica, Brusaporto, Villa di Serio (tutti paesi in provincia di Bergamo, ndR), e in alcune scuole del Veneto. In una elementare non statale di Treviso, di ispirazione cattolica, il dialetto è diventato addirittura materia di studio obbligatoria. Ha potuto farlo, spiegano, grazie all'autonomia concessa per legge a tutti gli istituti scolastici, che prevede per ogni corso di studi che il 20 per cento delle ore che costituiscono i “curricula” possa essere diverso dalle materie istituzionali. Mentre in molte regioni italiane si fanno corsi di dialetto, sia pure non scolastici, come a Bologna dove il “Caurs ed Bulgnais” è molto seguito da gente di ogni età.
In Friuli ci hanno provato addirittura con una legge regionale a introdurre l'obbligo del dialetto friulano. Anzi, della lingua friulana, la “marilenghe”, la madrelingua, come la chiamano. Guai a chiamarla dialetto. E non solo nelle scuole, un'ora di friulano la settimana, ma anche negli uffici pubblici, che avrebbero dovuto stendere gli atti anche in friulano, e nei consigli delle istituzioni locali, dove gli interventi avrebbero dovuto essere fatti, oltre che in italiano, anche in friulano. Ma la legge regionale, voluta dalla precedente giunta di centrosinistra guidata da Riccardi Illy, è stata bocciata nel maggio scorso dalla Corte Costituzionale che l'ha giudicata illegittima. I comitati autonomisti hanno annunciato ricorsi al Capo dello Stato e all'Unione Europea.
Ma lo stop della consulta non ha frenato le spinte leghiste. Alcuni senatori del Carroccio hanno preparato una legge per inserire il dialetto tra le materie da studiare a scuola. Il ministro dell'agricoltura Luca Zaia, che ogni tanto tiene comizi in dialetto, è uno dei più fieri sostenitori del progetto: «Le lingue sono ricchezze che appartengono ai popoli e non alle burocrazie. Penso al mio veneto. È una lingua usata in modo trasversale rispetto alle varie classi della società. Si parla nei consigli di amministrazione, nelle aziende, nelle fabbriche, a tutti i livelli. È il significato di mille anni di storia e non la difesa di una volontà dell'amarcord. Dietro la difesa identitaria c'è la difesa di una cultura, di una tradizione, della storia del nostro popolo».
Cita l'imperatore Adriano, il ministro, che definisce come «uno dei più grandi». «Lui diceva che aveva sempre governato in latino ma pensando in greco, cioè in quella che considerava la sua lingua madre». Anche per l'oste Ivano «si pensa e ci si arrabbia in dialetto, poi casomai si traduce in italiano». Il vero problema, spiega l'attore veneziano Lino Toffolo, «è che per noi l'italiano è la prima lingua straniera».
Va anche detto che non tutti i dialetti, da Nord a Sud, sono ritenuti uguali. Il viceministro leghista Roberto Castelli, per esempio, trova «una cosa insopportabile, che dà fastidio» che in televisione «parlino tutti in romaesco». Perfino nella fiction su papa Giovanni XXIII. «Era un bergamasco verace, e sentirlo parlare con l'accento romanesco è storicamente sbagliato».
La Repubblica | 30 luglio 2009