20090731

Un Paese, 6000 lingue

Viaggio nel Paese dei 6000 idiomi. Tra chi chiede che vengano insegnati a scuola e chi dice: è la lingua nazionale a essere in pericolo

Roberto Bianchini

Ivano faceva l'oste sui colli del trevigiano. Grande, grosso e buffo, la testa pelata e il naso a becco, sembrava uscito da una pagina di Carlo Goldoni. Ha girato il mondo per fare il suo mestiere, il Cavalier Ivano Mattiuzzo, parlando sempre e solo nel suo dialetto di Pieve di Soligo infarcito di visioni, improperi e sacramenti. Diceva che lo hanno sempre capito. Ora le cose stanno cambiando. Il poeta Andrea Zanzotto, che è dello stesso paese, si stupisce nel vedere che certe sue parole dialettali non vengono più capite dagli stessi abitanti: «il mio dialetto ormai risulta indecifrabile».

L'uso del dialetto infatti sta calando in tutta Italia, rileva l'Istat, proprio nel momento in cui in molte regioni si sta pensando di introdurlo a scuola, e il paese si divide sull'esame di dialetto per gli insegnanti e sui “test preselettivi” di cultura locale.
Perché conoscere i dialetti, secondo il presidente dell'Istituto di cultura delle lingue del Csr, Pierfranco Bruni, «è definire un processo storico e antropologico di una comunità, dal momento che i dialetti non sono strutture linguistiche minoritarie né lingue altre rispetto alla lingua italiana. Ma sono il vero tessuto di appartenenza a un territorio all'interno di un processo che punta rigorosamente alla difesa della cultura italiana. Quindi, rafforzano l'identità della lingua ufficiale di una nazione».
In Italia non c'è regione, città e persino paese che non abbia il suo dialetto. Da quello di Gizzeria, tipico di alcuni paesi calabresi, al Tabarkino parlato a Carloforte, in Sardegna. Fra gallo-italici del Nord, veneti, toscani, centrali, meridionali, siciliani, sardi, se ne contano la bellezza di seimila. Molto diversi l'uno dall'altro. Anche all'interno della stessa regione quando appaiono simili. In alcuni casi solo per accenti e inflessioni, come tra Palermo e Catania, in altri casi anche per le parole. Persino nelle isole della laguna di Venezia si parlano dialetti diversi: quello di Burano non è uguale a quello di Pellestrina.

Cantati da Porta e da Belli, da Trilussa e Pasolini, da Baffo e Marin, o messi in prosa da Camilleri, i “dialectos”, che non è spagnolo ma latino e greco, sono in realtà idiomi locali, “varietà linguistiche”, secondo gli studiosi. «Vere e proprie lingue», secondo il regista Maurizio Scaparro, teorico della “confusione dei linguaggi”, che nei suoi lavori ha spesso esaltato le due “lingue” ufficiali del teatro italiano, il napoletano e il veneziano. «Io credo che il dialetto rimanga una forza integra – spiega- il fatto è che sta cambiando il mondo, e che ai dialetti di base si stanno aggiungendo nuove lingue. Ma quello che mi preoccupa di più è che sta diminuendo l'italiano, nel senso che sono sempre di più quelli che lo parlano male, e lo stanno sostituendo con un semi-inglese da ragionieri. Ma perchè mai dobbiamo chiamare del welfare il ministro del lavoro e democratic party la festa dell'unità? Mi sa che c'è qualcosa che sta cambiando, sì, ma in male».

Quello che cambia, intanto, è l'uso del dialetto. Secondo l'Istat, l'utilizzo esclusivo del dialetto, soprattutto nell'ambito familiare, è diminuito «significativamente» nel tempo. In pochi anni si è praticamente dimezzato, passando dal 32% del 1988 al solo 16% del 2006. E' invece aumentato un “uso misto” di italiano e dialetto, e dal 2000 al 2006 è molto cresciuto l'uso esclusivo dell'italiano, sia in famiglia (45%) che con gli amici (48%), e specie con gli estranei: 72%. Il dialetto continua a essere parlato soprattutto in famiglia (16%), meno con gli amici (13%) e molto poco con gli estranei: appena il 5%. L'Istat segnala anche che l'uso esclusivo del dialetto cresce con l'aumentare dell'età (lo parla il 32% di chi ha più di 65 anni) e riguarda maggiormente «coloro che hanno un titolo di studio basso». Tra le regioni in cui il dialetto resiste meglio figura la Lombardia, dove un abitante su dieci, circa 800mila persone, parla abitualmente il dialetto in famiglia, e dove dal 2000 è cresciuto del 4% il numero di quelli che con gli estranei usano pressoché indifferentemente sia l'italiano che il dialetto.

Effetto dovuto, probabilmente, anche alle iniziative di partiti come la Lega, che al Nord sull'uso del dialetto hanno impostato da tempo una battaglia identitaria. Con epicentro, nel caso lombardo, la città di Bergamo, patria del ministro Calderoli, deve un abitante su dieci parla solo il bergamasco, dove il poeta Umberto Zanetti ha stilato una preziosa “grammatica bergamasca” e l'ingegner Giancarlo Giavazzi, che scrive nell'idioma orobico anche le presentazioni dei progetti e le ricevute ai clienti, si è sobbarcato l'immane fatica di tradurre in bergamasco nientemeno che le favole di Andersen, col risultato, dice lui, di «entusiasmare i ragazzini».

Ma è la scuola l'ultima vera frontiera della difesa del dialetto. Alle medie di Terno d'Isola, sempre in provincia di Bergamo, il dialetto si impara da anni. «Testi, poesie e film in bergamasco – spiega Luciano Ravasio, l'insegnante, - per raccontare la nostra campagna e le sue tradizioni». Altre lezioni in dialetto si svolgono regolarmente in Lombardia alle elementari di Torre Boldone, Bagnatica, Brusaporto, Villa di Serio (tutti paesi in provincia di Bergamo, ndR), e in alcune scuole del Veneto. In una elementare non statale di Treviso, di ispirazione cattolica, il dialetto è diventato addirittura materia di studio obbligatoria. Ha potuto farlo, spiegano, grazie all'autonomia concessa per legge a tutti gli istituti scolastici, che prevede per ogni corso di studi che il 20 per cento delle ore che costituiscono i “curricula” possa essere diverso dalle materie istituzionali. Mentre in molte regioni italiane si fanno corsi di dialetto, sia pure non scolastici, come a Bologna dove il “Caurs ed Bulgnais” è molto seguito da gente di ogni età.

In Friuli ci hanno provato addirittura con una legge regionale a introdurre l'obbligo del dialetto friulano. Anzi, della lingua friulana, la “marilenghe”, la madrelingua, come la chiamano. Guai a chiamarla dialetto. E non solo nelle scuole, un'ora di friulano la settimana, ma anche negli uffici pubblici, che avrebbero dovuto stendere gli atti anche in friulano, e nei consigli delle istituzioni locali, dove gli interventi avrebbero dovuto essere fatti, oltre che in italiano, anche in friulano. Ma la legge regionale, voluta dalla precedente giunta di centrosinistra guidata da Riccardi Illy, è stata bocciata nel maggio scorso dalla Corte Costituzionale che l'ha giudicata illegittima. I comitati autonomisti hanno annunciato ricorsi al Capo dello Stato e all'Unione Europea.

Ma lo stop della consulta non ha frenato le spinte leghiste. Alcuni senatori del Carroccio hanno preparato una legge per inserire il dialetto tra le materie da studiare a scuola. Il ministro dell'agricoltura Luca Zaia, che ogni tanto tiene comizi in dialetto, è uno dei più fieri sostenitori del progetto: «Le lingue sono ricchezze che appartengono ai popoli e non alle burocrazie. Penso al mio veneto. È una lingua usata in modo trasversale rispetto alle varie classi della società. Si parla nei consigli di amministrazione, nelle aziende, nelle fabbriche, a tutti i livelli. È il significato di mille anni di storia e non la difesa di una volontà dell'amarcord. Dietro la difesa identitaria c'è la difesa di una cultura, di una tradizione, della storia del nostro popolo».
Cita l'imperatore Adriano, il ministro, che definisce come «uno dei più grandi». «Lui diceva che aveva sempre governato in latino ma pensando in greco, cioè in quella che considerava la sua lingua madre». Anche per l'oste Ivano «si pensa e ci si arrabbia in dialetto, poi casomai si traduce in italiano». Il vero problema, spiega l'attore veneziano Lino Toffolo, «è che per noi l'italiano è la prima lingua straniera».

Va anche detto che non tutti i dialetti, da Nord a Sud, sono ritenuti uguali. Il viceministro leghista Roberto Castelli, per esempio, trova «una cosa insopportabile, che dà fastidio» che in televisione «parlino tutti in romaesco». Perfino nella fiction su papa Giovanni XXIII. «Era un bergamasco verace, e sentirlo parlare con l'accento romanesco è storicamente sbagliato».

La Repubblica | 30 luglio 2009

20090730

Battaglie giuste e sparate

La Lega e i dialetti

«Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto», diceva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Gaetano Polverelli, capo ufficio stampa di Mussolini: «L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e servitù». Un ordine insensato. Uno spreco di ricchezze.

Che Luigi Meneghello, autore di libri straordinari e stralunate filastrocche («potàcio batòcio spuàcio pastròcio / balòco sgnaròco sogàto peòcio») avrebbe potuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra all’università di Reading che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’italiano, l’inglese e pure il tedesco» ma che «l’uccellino italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’oseléto veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». Vale per il dialetto veneto e il siciliano, il sardo e il piemontese. Tutti.

Come dice Ferdinando Camon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putèi» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini». Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giusta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di tele-italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata strumentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unitari, per ragioni di bottega. Come è un peccato che un problema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle graduatorie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più rigide e al Sud più elastiche, venga tradotto in un attacco a tutti i docenti meridionali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sembravano) accantonati.

La scuola, come sa chi raggela davanti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Paese in drammatico ritardo (con la luminosa eccezione di alcune regioni settentrionali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terroni»), non ha bisogno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de sòc sèc i è car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano cari ovunque) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano insegnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italiano... Ha bisogno, insomma, di un salto di qualità. Che recuperando un forte e comune sentire intorno all'idea della Patria, dell'Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all'espressione diretta del cuore».

E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po' più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Iene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell'Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell'America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.

Gian Antonio Stella
Corriere della Sera | 30 luglio 2009

Pace-e-sonn'

Sarà colpa della digestione, del caldo, insomma: della stagione ma, nelle prime ore del pomeriggio non riesco a frenare una imbarazzante serie di sbadigli. Proprio lo sbadiglio nel mio dialetto viene definito con una parola composta che mi ha sempre affascinato e che la mia cara nonna ripeteva ammonendo i miei genitori: il bimbo è stanco, deve dormire, continua a fare "li Pace-e-sonn' "!

ciòpa

ciòpa...

ciòpa...


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similia tag
| michetta

20090729

esse sonora

Se per rappresentare il suono della L veneta è stato individuato un segno ritenuto idoneo da un rilevante numero di linguisti e scrittori (e denominato elle evanescente), manca un’efficace modalità di notazione che – in modo immediato e intuitivo – renda graficamente distinguibili altri suoni di uso comune nella Lingua veneta (e non solo) come, ad esempio, la esse sonora. Nelle trascrizioni della esse sonora veneta si riscontra infatti un uso indistinto dei segni S, X e Z: il corrispondente veneto dell’italiano “radici” si può pertanto trovare trascritto come raìse, raìxe e anche come raìze; così come l’italiano “taci”, può essere reso sia con tasi, sia con tazi ma potrebbe anche trascriversi come taxi (davvero impraticabile per evidenti motivi). Vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti.

Per la S non sonora o sorda
[fricativa alveolare sorda -
ital. sole, sasso, asfalto, morso]

si utilizza il segno S:
nelle trascrizioni talvolta si opta per un raddoppio della S sorda intervocalica, ma ciò induce il lettore alla produzione di doppie lettere laddove in realtà non esistono: musso (asino) dovrebbe infatti trascriversi come muso… ma nel perseguire una corretta notazione (in veneto non esistono doppie lettere), si rischia di indurre nel lettore non veneto un’analogia con l’omografo termine italiano “muso” (faccia). In taluni casi l’uso italianizzante della doppia lettera è preferibile - ancorché sostanzialmente scorretto: Venèssia, venessiàn alla lettura risulterà più comprensibile del corretto Venèsia, venesiàn. “Venexia, venexiàn” è invece una malintesa trascrizione, dato che la X si pronuncia come la sonora dell’italiano “rosa”, mentre in questo caso è richiesta la S sorda;
per la S sonora
[fricativa alveolare sonora - ital. naso, rosa, musica, asino]

si utilizzano:

il segno S, che rende quasi inevitabile per il lettore non veneto la confusione da omografia con il segno della S sorda;

il segno X, in progressiva dismissione, è classicamente associato al presente-terza-persona (“è”). Può dare adito a svariati malintesi in lettura in quanto ampiamente utilizzato nelle trascrizione di altre Lingue, tra cui il Ligure, per esprimere suoni diversi;

il segno Z, probabilmente il più funzionale, può tuttavia sviare verso la pronuncia di un suono che nella Lingua veneta non esiste (la zeta italiana).

Più che di perfetta interscambiabilità, in defintiva sembra trattarsi di un uso che varia secondo i codici di riferimento, la posizione della esse sonora all’interno della parola, la consuetudine…

20090728

sarach

e qui le ricettine ...

fitusu

alex

Fitusu = fetente

(...) in genere si dice di persona senza coscienza, capace di tutto, amorale. Viene definito, come superlativo, "cosa fitusa" chi perde connotati umani nell'agire male e assume caratteri astratti di assoluta malvagità.
Raramente "fitusu" è sinonimo di stupido, sprovveduto. Come nel caso di Tanino Sciacca, operaio portuale, che venne coinvolto nella recita di un mortorio (rappresentazione popolare e in dialetto della Passione di Cristo). Doveva fare la parte di Caifas, capo del sinedrio, e la sua prima battuta era: "Io fussi Caifassu", io sarei Caifa, ma alla vista del pubblico s'impappinò, si fece travolgere da una serie di papere tipo "io fassi ca fussi", "io cafassi fussi", e via di seguito dinchè scorato e quasi piangente si levò il camicione che indossava e disse:
"Cu fussi fussi, u fitusu fu i' ca mi ci misi" (Chiunque io sia stato, il fesso sono io che mi ci sono messo, in questa storia).
Andrea Camilleri - Il gioco della mosca - Sellerio

20090727

amore, tosse e pansa

Edika!amore, tosse e pansa
no se sconde

amore, tosse e pancia non si nascondono

20090726

bindolo

bìndolo (s.m.) | altalena



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similia tag | pisalànco

20090725

sgréndene

sgréndene, sgréndane (s.f. pl.) | capelli spettinati e/o sporchi

20090724

ponàro

pollaio

20090723

mandi

La parola mandi è la formula di saluto in Lingua Friulana. È utilizzata come formula di benvenuto/bentrovato, ma anche come formula di commiato.

Sono state avanzate diverse ipotesi sulla sua etimologia. La più antica, che rimane tuttora la migliore, sostiene che deriva da un antico m'arcomandi (mi raccomando) oppure anche mi racomandi a Diu (mi raccomando a Dio).

Non altrettanto soddisfacenti sono invece le altre etimologie proposte nel corso degli ultimi due secoli. Tra queste si ricordano le derivazioni dal latino:
mane diu (letteralmente "rimani a lungo", ovvero "lunga vita");
manus dei (letteralmente "mano di Dio", ovvero "che Dio ti protegga");
mane in deo (letteralmente "rimani in Dio").

20090721

Le campane de Fimon

Din don
Le campane de Fimon
Che le sona giorno e notte
E le buta xo le porte

Ma le porte le xe de fero
Volta la carta ghe xe on puliero (puledro)

On puliero che trà de cao (tira calci)
Volta la carta ghe xe on pao (tacchino)

On pao col beco rosso
Volta la carta che xe un posso (pozzo)

On posso pien de acqua
Volta la carta ghe xe ‘na gata

‘na gata con tri gatei (gattini)
Volta la carta ghe xe do putei (bambini)

Do putei che fa ostaria
Volta la carta – la xe finia

Il lago di Fimon a Vicenza è situato nei pressi della casa natale di mia madre. Questa ninna nanna ha portato nel mondo dei sogni intere generazioni di bambini della mia famiglia, è toccata a me e ai miei fratelli, poi naturalmente la magia si è ripetuta con i nostri figli… cullandoli dolcemente… la voce è cambiata, l’incertezza nella pronuncia… ma è qui ancora che frulla in testa con un misto di tenerezza e nostalgia... per una terra lontana e per i visi dolci che hanno accompagnato la nostra infanzia.

20090720

tàpara

pixabay.com
tàpara (s.f.) | ceppo, ceppaia

20090719

amarcord

Amarcord, in romagnolo «A m'arcòrd», mi ricordo, la chiave di tutta la poetica felliniana, la cifra di un autore che, da quando fa cinema, nei suoi momenti più alti è sempre andato alla «ricerca del tempo perduto», trovando nei ricordi, nella memoria, la fonte più viva della sua ispirazione (...).
[Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 19 dicembre 1973]

Ci son rimasto come un patacca; mi volevo buttar giù dal molo... (Titta)

Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, fazzo i mattoni anche me, ma la casa mia n'dov'è? (Calzinazz)

– E allora, onori il padre e la madre? (il prete)
– Io sì. Ma loro non mi onorano a me: mi danno certe tozze sulla testa! (Titta)

20090718

cendorugio

Il dizionario di vernacolo lucchese lo traduce così: "che sta fra la cenere nel canto del fuoco, come i gatti".
In Versilia si definisce céndorùgio (l'accento tonico cade sulla u) un individuo dall'aspetto trasandato e sciatto.

Agreste n.3

AGRESTE N. 3

A sgrìsulin, a ùitin, a piulin
als, als, als, tal sèil i usiei.
La neif tai mons a brila
alta tsal sèil. I usiei
in-t-al çaldùt dal nul
a clamin
tan prin soreli a clamin
la primavera.

Trillano, cinguettano, pigolano,
alti, alti, alti nel cielo gli uccelli.
La neve sui monti brilla
alta nel cielo. Gli uccelli
nel calduccio del nuvolo,
chiamano,
nel primo sole chiamano,
la primavera.

Pier Paolo Pasolini (da "Poesie disperse")

redentore

foghi &gondole

Ogni terza domenica di luglio si festeggia a Venezia la Festa del Redentore (Redentór in veneziano), a ricordo della terribile epidemia di peste che nel 1575 decimò la popolazione.
Dopo l'inverno e il freddo l'epidemia cessò e nel dicembre del 1576 fini l'incubo.
Il Doge Sebastiano Venier diede incarico all'architetto Andrea Palladio di pregettare il tempio votivo del "Redentore", situandolo nell'isola della Giudecca.
Il doge, senza aspettare la fine dei lavori di costruzione, volle recarsi alla Giudecca con una processione solenne: fu allora realizzato un ponte di barche da piazza San Marco alla Giudecca per far passare la processione e così per ogni anno a venire.
La festa era preceduta da molti preparativi, le case della Giudecca venivano imbiancate e addobbate, si cominciava a festeggiare già dalla vigilia e famiglie intere del popolo e della nobiltà e gruppi di amici restavano alla Giudecca a mangiare, bere e fare festa per tutta la notte.
Altri ancora attraccavano alla Giudecca e festeggivano in barca in attesa dei fuochi d'artificio. Poi, dopo mezzanotte, molte imbarcazioni si recavano alla spiaggia del Lido per attendere l'alba.
Ancora oggi, sbiadita l'antica origine religiosa, imbarcazioni di ogni tipo affollano il Bacino di San Marco aspettando i fuochi d'artificio: uno spettacolo unico!

20090717

Remulasi

Remulasì

Mi viene in mente questa canzoncina in milanese...

La bella la va al fosso,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
La bella la va al fosso, al fosso a resentar, ohei,
al fosso a resentar!

Nel bel che la resenta,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Nel bel che la resenta, ghe borla giò l’anel, ohei,
ghe borla giò l’anel!

Alzando gli occhi al cielo,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Alzando gli occhi al cielo, la vede il ciel seren, ohei,
la vede il ciel seren!

L’abbassa gli occhi al mare,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
L’abbassa gli occhi al mare, e vede un pescator, ohei,
e vede un pescator!

O pescator che peschi,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
O pescator che peschi, deh pescami l’anel, ohei,
deh pescami l’anel!

Ma sì che te lo pesco,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Ma sì che te lo pesco, per ùn basin d’amor, ohei,
per un basin d’amor!

Se ci vedran le stelle,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Se ci vedran le stelle, le stelle non san parlar, ohei,
le stelle non san parlar!

Se ci vedrà la luna,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Se ci vedrà la luna, la luna non sa spiar, ohei,
la luna non sa spiar!

Se ci vedrà il buon Dio,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Se ci vedrà il buon Dio, il buon Dio sa perdonar, ohei,
il buon Dio sa perdonar!

Nel bel che se basavan,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Nel bel che se basavan, ghe salta for so pà, ohei,
ghe salta for so pà!

Papà, papà perdono,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
Papà, papà perdono, non lo farò mai plù, ohei,
non lo farò mai plù!

La storia l’è finita,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass!
La storia l’è finita, con un basin d’amor, ohei,
con un basin d’amor!


E, in napoletano, anche questa. :-)

Smara


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smara (s.f.) | corruccio (Sentimento di ira, dolore, risentimento)

caliero


caliéro (s.m.) | paiolo in rame (per polenta)
attestato anche come: caldiéro, caldiéra, caliéra...

20090716

sgrisolón

brividi

Sgrisolón = Brivido (per freddo, paura o altro)

Voce onomatopeica, da "griss", "grizz", imitante il rumore prodotto dal digrignare dei denti

20090715

me da gusto

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mi piace, mi garba[me da gusto gi' al cinema: mi piace andare al cinema]

20090713

Ciurlijàte

Ciurlijàte = cinguettio di tanti uccellini o vociare di bambini, gazzarra, riferibile agli uccelli, dal significato 'cinguettano'... si può ascoltare la sera, quando tutti gli uccellini tornano al nido o al mattino appena svegli!
Per traslato, quando i bambini nel giocare parlano o gridano tutti insieme infastidendo i grandi... ma anche di un gruppo di donne che parlano concitatamente e contemporaneamente!

20090712

pomaro


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pomàro (s.m.) | melo

20090711

Dili

DILI

Ti jos, Dili, ta li cassis
a plòuf. I cians si scunìssin
pal plan verdùt.

Ti jos, tai nustris cuàrps,
la fres-cia rosada
dal timp pirdùt.


DILIO

Vedi, Dilio, sulle acacie
piove. I cani si sfiatano
per il piano verdino.

Vedi, fanciullo, sui nostri corpi
la fresca rugiada
del tempo perduto.


Pier Paolo Pasolini
(da "Poesie a Casarsa", 1943)

Strangozzi o strozzapreti


Li conoscevo come strangozzi o al più strozzapreti, squisiti con ogni tipo di sugo, dal ragù al tartufo... slurp! Un salto su wikipedia m'ha fatto scoprire un mondo di varianti! Gli strangozzi sono una pasta lunga a sezione quadrata o rettangolare, tipica dell'Umbria (specie tra Foligno e Spoleto), ma diffusi anche nelle Marche e nel Lazio. A seconda delle zone vengono chiamati stringozzi, strengozzi, strengozze, strozzapreti e, nel ternano, ciriole.
Si tratta di un prodotto 'povero': assomigliano ai tagliolini, ma non sono all'uovo. Tradizionalmente si realizzano a mano, impastando farina di grano tenero, acqua, sale e stendendo una sfoglia spessa 2-4 mm, tagliata a strisce larghe circa 4 mm e lunghe circa 30 cm. Considerata la forma, per alcuni il nome strangozzi deriverebbe dalle stringhe da scarpe che i rivoluzionari, nello Stato Pontificio, usavano per strangolare i preti: quindi una fusione tra le parole 'stringa' e 'strangolare', donde le varianti strozzapreti e persino strangolapreti.

murrina


Oggetto artistico tipico della tradizione dell’isola di Murano, ottenuto saldando a fuoco in senso longitudinale canne di vetro monocromo o di colori diversi, sezioni di millefiori o pezzi di vetro policromo.

per rendere vagamente l'idea della tecnica:
[ foto: murrina.it ]

20090709

napa

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napa (s.f.)
cappa aspirante (del camino o della cucina),
ma anche... grande naso

20090708

bisàto

bisàtobisàto = anguilla
da "biso" = bigio, per il colore grigio delle anguille adulte
el se move come un bisàto = si divincola

20090707

sangue vivo


[italia, 2000, 95' | audio: dialetto salentino - sottotitoli in italiano]

In una cittadina del Salento il cinquantenne Pino (P. Zimba) fa il contrabbandiere perché deve mantenere moglie, figli, madre, un'altra donna e il fratello minore Donato, talentoso musicista di “pizzica”, ma uomo debole allo sbando che si fa di eroina e vive di furtarelli e spaccio. (...) Non privo di difetti e di eccessi, “ingenuo e spavaldo, con troppa carne al fuoco e uno sguardo voracissimo”, il secondo film di E. Winspeare arriva – caso raro nel cinema italiano – attraverso gli schemi della sceneggiata dialettale e del melodramma a una dimensione tragica in chiave autodistruttiva per virtù di temi (amore fraterno, senso dell'onore, valentìa), di stile, di facce, di paesaggi. Musiche del gruppo Zoé. Antigone d'oro al festival del Mediterraneo di Montpellier, premi a San Sebastian e Sulmona, Grolla d'oro a Saint-Vincent.

recensione da: il Morandini, Zanichelli 2007

20090706

formentón


openclipart.org
formentón (s.m.) | mais, granturco
[accrescitivo di "formento", dal latino frumentum]

20090705

filò

far filòFilò = veglia nella stalla
da filare, tessere.

Si usava nella società contadina, nelle stalle delle barchesse, “far filò”, chiaccherare e raccontare ai bambini storie e fiabe intorno al fuoco, le sere d’inverno.

Vecio parlar che tu à inte’l tó saór
Un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descunì
dì par dì ‘inte la boca (e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an
(…)
Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére
De ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
Inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
De tut i zhimiteri: òe da dirte zhimithero?
Elo vero che pi no pól esserghe ‘romai
Gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
Ai fiói ‘l petel e i gran maestri lo sconsiglia?
(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi -
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.


Traduzione:

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato come la mia faccia
con la mia pelle anno per anno
(…)
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
E’ vero che non può più esserci oramai
nessun parlare di néne nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il pètel e gran maestri lo sconsigliano?
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli -
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.

Andrea Zanzotto
Filò. Per il Casanova di Fellini
Mondadori

barèna

barèna (s.f.)
[fondo lagunare che emerge per lungo tempo con la bassa marea e in cui si può sviluppare la vegetazione: dal veneziano antico baro, terreno incolto]

20090704

baùta

Uno dei travestimenti più comuni nell'antico Carnevale veneziano, soprattutto a partire dal XVIII secolo, rimasto in voga ed indossato anche nel Carnevale moderno, è sicuramente la Baùta. Questa figura, prettamente veneziana ed indossata sia dagli uomini che dalle donne, è costituita da una particolare maschera bianca denominata larva sotto ad un tricorno nero e completata da un avvolgente mantello scuro chiamato tabarro.

[ foto: papiermache.it ]

La baùta era utilizzata diffusamente durante il periodo del Carnevale, ma anche a teatro, in altre feste, negli incontri galanti ed ogni qualvolta si desiderasse la libertà di corteggiare od essere corteggiati, garantendosi reciprocamente il totale anonimato. A questo scopo la particolare forma della maschera sul volto assicurava la possibilità di bere e mangiare senza doverla togliere.

barchessa

La barchéssa, barcón o barco sono edifici, tipici dell'architettura della villa veneta, adibiti a rimesse di attrezzature agricole, stalle e scorte alimentari; di norma presentano una struttura porticata ad alte arcate a tutto sesto.

20090703

s-ciòna

s-ciònaS-ciòna = orecchino a forma d'anello, ma anche sbornia

Contrazione di "s-ciaona" = schiavona, per l'uso degli Schiavoni (Slavi) di portare anelli

S-ciòne de oro (orecchini d'oro)
El ga ciapà na s-ciòna... (ha preso una sbornia...)

Il trattino che separa S e C sta a significare che le due consonanti sono da pronunciare separate

squero

squèro (s.m.)
Cantiere veneziano per la costruzione e la riparazione di imbarcazioni di dimensioni contenute, specialmente gondole.

20090702

spinéta

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spinéta (s.f.) | armonica a bocca

20090701

un me la so ripone

Mi ha dato lo spunto mia sorella, questo pomeriggio, quando parlavamo del disastro ferroviario, e conseguente strage, di Viareggio. Nell'esprimere il nostro orrore e raccapriccio, soprattutto per quanto riguarda i bambini morti carbonizzati, lei ha usato proprio questa espressione, molto frequente in Versilia.
Un me la só ripone = non me ne faccio una ragione, non riesco ad accettarlo, non mi do pace... (ripone = riporre)

'l gir del macinello

Nei giardini del lungolago di San Feliciano sul Trasimeno (PG) vi è una antica macina da mulino detta il macinello. È tradizione che fare un giro intorno al macinello porti fortuna e faccia ritornare in questo piacevole luogo, per cui all'assiduo frequentatore di San Feliciano si usa dire:

"ma che hai fatto, 'l gir del macinello?"

pita

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pita (s.f.) | tacchina
Avere la pita: avere la schiena ingobbita o ricurva
in analogia al dorso del tacchino (= pito o pitón)
[vedi anche: pitantàna]


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| pite&dindi ¬ billo

 
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