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20100806

abbajola

abbajola | coccinella


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similia tag | galineta

20100520

unturgiu


Unturgiu = Avvoltoio. Il significato è estendibile anche a persona sgradevole. Io ho preferito inserire l'immagine del pennuto, per altri "soggetti" ognuno ci può mettere la sua fantasia :)

20100329

apiseddau


Apiseddau = gonfio

20091227

Francesco Masala (5/5)

Cantone de s’ómine in su fossu

Ehi, bona zente, leade unu che a mie,
mesu ómine e mesu arveghe,
pasturighende in losas de nuraghes,
e faghìdeli custa brulla:
ponìdeli subra sa conca
una raffineria de petróliu
de unu matimannu milanesu.
[...]

Ballata dell’uomo nel fosso

Ehi, gente, prendete uno come me,
mezzo uomo e mezzo pecora,
al pascolo fra tombe di nuraghi,
e fategli questo scherzo:
mettetegli sopra la testa
una raffineria di petrolio
di un milanese pancia-piena.
[...]



1/5, 2/5, 3/5, 4/5, 5/5

20091212

Francesco Masala (4/5)

Innu nou contra sos feudatàrios
(a sa manera de Frantziscu Innàssiu Mannu)


Trabagliade, trabagliade,
poveros de sa biddas,
pro mantènnere in tzittade
tantos caddos de istalla:
issos regollin su ranu,
a bois lassan sa palla.

[...]

Nuovo inno contro i feudatari
(alla maniera di Francesco Ignazio Mannu)


Lavorate, lavorate,
poveri dei villaggi,
per mantenere in città
tanti cavali da stalla:
loro raccolgono il grano,
a voi lasciano la paglia.
[...]

Francesco Màsala


1/5, 2/5, 3/5, 4/5, 5/5

20091127

Francesco Masala (3/5)

Pregadoria de sos messadores

Custa est sa terra nostra,
ue su entu solopu,
che una falche de fogu,
mèssada sas ispigas ruinzadas.
Làgrimana sos sulcos
sutta sos pedes nudos
de sos fizos ch’ispigan,
rumasos che runzinos,
peleados che burricos:
chie no messat, ispigat.
[...]


Preghiera dei mietitori

Questa è la nostra terra,
dove il vento del sud,
come una falce di fuoco,
miete le spighe arrugginite.
Piangono i solchi
sotto i piedi scalzi
dei nostri figli che spigolano,
magri come ronzini,
rassegnati come asini:
chi non può mietere, spigola.
[...]



1/5, 2/5, 3/5, 4/5, 5/5

20091112

Francesco Masala (2/5)

Cantone de sas ispigadoras

Su sole, a manzanile, si nde pesat
dae ucca de sas crabas
chi an dentes de oro
e, a sero, si che corcat
intro una losa de abba
[...]


Ballata delle spigolatrici

Il sole, all’alba, si leva
dalla bocca delle capre
che hanno i denti d’oro
e, a sera, muore
dentro una bara d’acqua
[...]



1/5, 2/5, 3/5, 4/5, 5/5

20091101

In dommu de su ferreri, schironi ‘e linna

Questo detto significa: a casa del fabbro, spiedo(i) di legno.
Come capita spesso nel mondo dei detti, dei proverbi ed in genere in quello del linguaggio colloquiale sardo, per veicolare uno o più significati di varia natura si ricorre ad una figura appartenente al mondo del lavoro.
Non di rado, le figure adottate provengono dal mondo artigiano, agropastorale ed operaio.
In questo caso, su ferreri cioè il fabbro è utilizzato come persona di cui non si mettono a priori in dubbio le capacità o le doti professionali, l’esperienza, la forza fisica ecc.
Del fabbro si discute invece il senso pratico o meglio, domestico; l’attitudine o sa gana, la voglia, la volontà di rendersi utile in famiglia.
In effetti, un fabbro che non sappia o non voglia forgiare degli spiedi metallici per sé o per i suoi, può suscitare s’arrisu, il riso ed essere canzonau, schernito.
Come capita spesso nelle culture popolari, assistiamo qui ad un rovesciamento di valori e di prospettiva (quel che di solito capita in occasione del Carnevale).
L’esperto artigiano è così abbassato al rango di allocco o come si dice nel sardo parlato a Cagliari e nel suo circondario, di balossu.
Allargando (di molto) il discorso, mi pare che nel folklore yiddish e nella stessa cultura ebraico-orientale vada per così dire in scena il tipo del dotto talmudista.
Il dotto in questione vien talvolta rappresentato come il classico Luftmensch (uomo delle nuvole, sognatore) che nelle questioni pratiche deve essere tratto d’impaccio dalla moglie (ah, le donne!).
Il filosofo danese Kierkegaard raccontava del tipico filologo (olandese, credo) che riceveva un aiuto simile dalla consorte…
Su questo tema sarebbe comunque interessante un confronto anche con altre/i del blog.
Domanda, quindi: nella vostra regione avete un equivalente del fabbro che a casa sua utilizza degli spiedi di legno? Voglio dire, un detto che possa essere avvicinato a questo? (il che è piuttosto probabile).
Comunque, per me il detto in dommu de su ferreri, schironi de linna può essere inteso in senso lato come uno sberleffo ai cosiddetti esperti

20091028

Francesco Masala (1/5)

Lìttera de sa muzere de s’emigradu

Est bénnidu s’istiu.
Dae ispigas de néula, in su cunzadu,
est fioridu trigu de chigina:
as semenadu in mare.
Su ruinzu e su solopu
an mandigadu pane ‘e fizu tou:
as semenadu in mare.

[...]


Lettera della moglie dell’emigrato

E’ venuta l’estate.
Dalle spighe di nebbia, nel tuo campo,
è nato grano di cenere:
hai seminato in mare.
La ruggine e scirocco
hanno mangiato il pane di tuo figlio:
hai seminato in mare.
[...]

Francesco Màsala


1/5, 2/5, 3/5, 4/5, 5/5

20090928

In su bucconi spratziu…

Ecco come prosegue il detto sardo: … s’angelu si dui sezziri.
Esistono anche delle varianti (peraltro poco rilevanti) del tipo: in su bucconi sparzìu, s’angelu s’inci sezziri (Adriano Vargiu, Guida ai detti sardi, Sugarco, Milano, 1981, p.55).
O anche: su bucconi spartìu, s’angelu s’inci sezziri (Patrizia Mureddu e fratelli, A mustazzu stampaxinu, femina biddanoesa, Scuola sarda editrice, Cagliari, p.27) ecc.
Comunque, il detto significa: l’angelo siede, prende posto nel boccone che si divide.
Sono parole molto belle, che indicano un proposito solidaristico, la volontà di non escludere l’altro.
Se immaginiamo la Sardegna quasi totalmente agro-pastorale e semideserta d’alcuni decenni fa, capiamo facilmente il valore di questo detto.
In quella Sardegna, infatti, di norma i centri abitati si trovavano a notevole distanza l’uno dall’altro: spesso si potevano percorrere decine di km senza incontrare anima viva.
L’alimentazione era poverissima, anzi diciamo pure misera perciò il fatto di dividere il proprio cibo con altri era encomiabile.
Inoltre, non si poteva essere del tutto sicuri dell’identità di chi si decideva d’aiutare. Soprattutto nel caso di un viaggiatore, di un forestiero ecc. poteva trattarsi di un bandito, di un latitante…
Tuttavia, il dovere dell’ospitalità non ammetteva eccezioni.
Del resto, l’ospite era accompagnato da un’aura di mistero e forse anche di sacralità.
Esistono molti racconti e leggende in cui i protagonisti sono Cristo e gli apostoli, che vagano per la Sardegna in cerca di cibo o di riparo per la notte…
Incidentalmente: penso che questo elemento narrativo-leggendario sia comune a molte regioni italiane.
In ogni caso, che il detto citato non venisse sempre applicato è provato dal fatto che alcune delle leggende in questione terminavano con alberi, luoghi o persone pietrificati, inceneriti ecc.!
In ogni caso, su bucconi spratzìu non poteva nascere che da una cultura fondamentalmente solidaristica.
Ho sentito per la prima volta questo detto da persone originarie di Sinnai, una cittadina a pochi km da Cagliari.
Ho poi avuto il piacere di ritrovarlo in epigrafe alla Compagnia dei celestini del bolognese Stefano Benni.
In conclusione, sia bogai a son’e corru (già commentato nell’omonimo post) che in su bucconi esprimono una visione storico-sociale.
Il 1° è la storia di un’esclusione, anche violenta; come non pensare, ai giorni nostri ai cd “clandestini”?
Il 2° esprime una volontà di inclusione.
Io penso che se siamo esseri umani dobbiamo optare per la condivisione, per il dividere con l’altro. Ed allora, anche se l’angelo non prenderà posto tra noi, forse saremo gli angeli di noi stessi.

20090916

“A son ‘e corru”

L’espressione a son ‘e corru (così pronunciata ma che troverei più corretto scrivere a su sonu de su corru) è tipicamente cagliaritana. Da Cagliari essa si sarà diffusa anche in altre zone della Sardegna del sud. Significa "al suono del corno".
A qualcuno quell’espressione evocherà atmosfere e suggestioni medievaleggianti… le imprese dei paladini di Francia, cacce nella foresta, sante e faticose ricerche del Santo Graal…
Altri penseranno a piccanti gesta adulterine; non si sa poi perché se la nostra società gareggia, fino ai suoi vertici, nell’esercizio di una continenza poco meno che monacale.
Ora, il riferimento giusto è quello medievale. Infatti, durante i 4 secoli di dominio spagnolo su cussus poberus sardus (quei poveri sardi) fiada sa lei (era legge) che la parte alta della città fosse soggetta a coprifuoco.
Quella parte costituiva il centro politico-amministrativo e militare di Cagliari e per gli spagnoli, i cagliaritani non vi si dovevano trattenere oltre le 20.
Così, quando cussus dimonius sonanta su corru (quei diavoli suonavano il corno) is casteddaius (i cagliaritani) dovevano telare.
Chi non rispettava tale lei leggia (brutta legge) veniva scaraventato dagli spagnoli giù dalle mura… sulle rocce sottostanti.
Magari un contadino, un artigiano, un commerciante ecc. aveva dei problemi con ruote o assi del proprio carro, con un asino o un cavallo recalcitrante.
Una trattativa d’affari poteva andare per le lunghe o forse qualche spagnolo alluttu (acceso, in senso sessuale) gli aveva molestato la moglie o la figlia; era quindi sorta una questione da dirimersi a curteddu (col coltello).
Ma po is meris de is sardus (per i padroni dei sardi) niente di tutto questo poteva evitare il volo dalle mura.
Col tempo, i cagliaritani hanno dimenticato l’origine ed il senso reali de ci (o ddu) anti bogau a son ‘e corru (l’hanno cacciato al suono del corno). E’ diventata un’espressione a sfondo umoristico, sinonimo di cacciata clamorosa, senza possibilità d’appello.
E’ stata così dimenticata l'orribile fine di tantissimi sardi.
Pare inoltre che dopo aver sfracellato la vittima di turno, si pronunciasse la formula stampax, stai in pace. Forse “stampax”, evidente corruzione del latino stas in pax (o simili) ha dato il nome al quartiere limitrofo di Stampace… in sardo Stampaxi.

20090111

monti di mola

In li Monti di Mola
Sui Monti di Mola*
la manzana
la mattina presto
un’aina musteddina era pascendi
un’asina dal mantello chiaro stava pascolando
in li Monti di Mola
sui Monti di Mola
la manzana
la mattina presto
un cioano vantaricciu e moru
un giovane bruno e aitanteera sfraschendi
tagliava frasche
e l’occhi s’intuppesini cilchendi ea ea ea ea
e gli occhi si incontrarono mentre cercavano acqua
e l’ea sguttesi da li muccichili cù li bae ae ae
e l’acqua sgocciolò dai musi insieme alle bave
e l’occhi la burricca aia
e l’asina aveva gli occhidi lu mari
color del mare
e a iddu da li tivi escia
e a lui dalle narici uscivalu Maistrali
il Maestrale
e idda si tunchià abbeddulata ea ea ea ea
e lei ragliava incantata ea ea ea ea
iddu li rispundia linghitontu ae ae ae ae
lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae
– oh bedda mea
– oh bella mia
l’aina luna
l’asina luna
la bedda mea
la bella miacapitale di lana
cuscino di lana
oh bedda mea
o bella mia
bianca foltuna –
bianca fortuna –
– Oh beddu meu
– O bello mio
l’occhi mi bruxi
mi bruci gli occhi
lu beddu meu
il mio bello
carrasciale di baxi
carnevale di baci
oh beddu meu
oh bello miolu cori mi cuxi –
mi cuci il cuore –

Amori mannu
Amore grande
di prima ‘olta
di prima volta
l’aba si suggi tuttu lu meli di chista multa
l’ape ci succhia tutto il miele di questo mirto
Amori steddu
Amore bambino
di tutte l’ori
di tutte le ore
di petralana lu battadolu
di muschio il battacchio
di chistu cori
di questo cuore

Ma nudda si po’ fa nudda
Ma nulla si può fare nulla
in Gaddura
in Gallura
che nu lu ènini a sapi
che non si venga a sapere
int’ un’ora
in un’ora
e ‘nfattu una ‘ecchia infrascunata fea ea ea ea
e sul posto una brutta vecchia nascosta tra le frasche
piagnendi e figghiulendi si dicia cù li bae ae ae
piangendo e guardando diceva fra sé con le bave alla bocca

– Biata idda
– Beata lei
uai che bedd’omu
mamma mia che bell’uomo
biata idda
beata lei...
cioanu e moru
giovane e bruno
biata idda
beata leisola mi moru
e io muoio da sola
biata idda
beata lei
ià me l’ammentu
me lo ricordo bene
biata idda
beata lei
più d’una ‘olta
più d’una volta
biata idda
beata lei
‘ezzaia tolta –
vecchiaia storta –

Amori mannu | di prima ‘olta (...)
Amore grande | di prima volta (...)

E lu paese intreu s’agghindesi
Il paese intero si agghindò
pa’ lu coiu
per il matrimonio
lu parracu mattessi intresi
lo stesso parroco entròin lu soiu
nella sua veste
ma a cuiuassi no riscisini
ma non riuscirono a sposarsi
l’aina e l’omu
l’asina e l’uomo
chè da li documenti escisini
perché dai documenti risultaronofratili in primu
primi cugini

e idda si tunchià abbeddulata ea ea ea ea
e lei ragliava incantata ea ea ea ea
iddu li rispundia linghitontu ae ae ae ae...
lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae...


fabrizio de andrè
[Genova-Pegli, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999]
fondazionedeandre.it/

* Monti di Mola:
così era chiamata anticamente
l’attuale Costa Smeralda


 
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