20111002
20110629
20110213
veneto dei dialetti
via | em20110126
20101121
pasolini, pier paolo
via | em20100927
disunione che unisce
via | em20100922
el me' aristotil
via | em20100619
il paradosso di battaglia terme
via | emFra le varie stravaganze che la Lega ci propone, merita qualche attenzione quella che ci viene dal Comune di Battaglia Terme in provincia di Padova e che riguarda la conoscenza e la pratica del dialetto quale requisito degli aspiranti vigili urbani (...). Motivo della richiesta: ai numerosi anziani «risulta molto difficile esprimersi in italiano. Giusto allora assumere un vigile che li capisca e si faccia a sua volta comprendere».
A questo punto nasce un’obiezione, anzi una proposta, sempre nello spirito della Lega. La Lega ha più volte proclamato che per la concessione della cittadinanza italiana agli immigrati è necessaria, fra l’altro, la conoscenza della lingua italiana, cioè sapere parlare e scrivere correttamente in italiano.
Ma se, in atti pubblici, viene certificato che questa «conoscenza» è assente in così larga parte dei cittadini di Battaglia Terme (e, si presume, di molte altre località del Veneto e di chissà quante altre regioni), non si dovrebbe di conseguenza escludere costoro dal diritto di cittadinanza finora usurpato?
20100404
20100402
zaia grammelot
via | emelle evanescente! - Una volta per tutte: anche se si pronuncia “a” (oppure “eà”), il femminile dell'articolo definito (la le in italiano, per intendersi) va trascritto utilizzando il segno "
Ancora, "volontà" vs. "poitica" (senz'accento tonico, lettore mettici del tuo...): una volta Con, una volta Senza, segno di incrollabile padronanza della materia...
doppie lettere! - Una volta per tutte: in Veneto non esistono doppie lettere intervocaliche. Punto e basta. E' pur vero che alcuni dialettologi optano per una trascrizione italianizzante della doppia intervocalica, ma se si è di questa scuola di pensiero, un minimo di coerenza sarebbe richiesta... Invece qui, nella stessa riga, convivono inspiegabilmente “vitoria” e “elettori”...
apocope! - Sembra postularsi come base linguistica la scelta del veneto-veneziano, che effettivamente fa largo uso di parole a finale tronca (il “ca
Ma il vero capolavoro è “sol” (sempre senz'accento tonico... e la vocale... sarà aperta o chiusa?): sostantivo veneziano che significa “sole”, qui è contrabbandato per l'avverbio “solo, solamente”...
fritto misto scelto:
- “el Veneto ze na region maravejosa”: vallo a dire a un chioggiotto, poi vedi cosa si intende per “matte risate”... A Chioggia (Venezia), come peraltro in tutto il Veneto, “maravejoso” sta per “colui che si meraviglia”; “darse maraveja” vuol dire “stupirsi”, “meravigliarsi”. Il termine è dunque inappropriato ad esprimere “bellissimo, meraviglioso”, trattasi di false friend...;
- “dògo”, invece dell'universamente diffuso “zugo/zògo” (= gioco)... trattasi di occulto omaggio ad Andrea Zanzotto? In questo caso, benvenga... ma attenzione: il grande vecchio è un pericoloso cummunista e non scrive in veneziano...;
- “ un co' ”, è semplicemente incommentabile... “oggi” in veneto si pronuncia e trascrive “uncò/ancùo”;
- “rincuràr”: ma quando mai? “rancuràre/rancuràr”, casomai...;
- calchi italiani e venetizzazioni: numerosi, involontariamente comici e comprensibili anche ai non veneti... “sicuransa”..? “paronansa”..? “vizilia”..? Ma Quando Mai? Ma Dove?
epilogo
Testi di riferimento
AA.VV., Manuale di Grafia Veneta Unitaria, stilato dalla commissione scientifica istituita con Deliberazione della Giunta Regionale del Veneto n. 4277/1994
Turato e Durante, Dizionario etimologico Veneto-Italiano, La Galiverna, 1995
20100323
dalle "i" di berlusconi alle "p" di cota
via | em«Cota: più lingua piemontese nelle scuole»
Questo il grande titolo sovraimpresso su una veduta di Torino, con la Mole in primo piano, apparso oggi, 23 marzo, sulla prima pagina del quotidiano "La Padania", organo ufficiale della Lega.
Credo che nessuno pretenda dal candidato della destra alla Regione Piemonte, Roberto Cota, una pur minima conoscenza della linguistica, ma almeno una informazione sui numerosi dialetti parlati nella regione i suoi spin doctor avrebbero dovuto fornirgliela. Il ragazzo "dalla faccia pulita" alla ricerca disperata di voti negli ultimi giorni della campagna elettorale dopo aver sollecitato i più bassi istinti razzisti in compagnia del prode Mario Borghezio, gioca la carta del campanilismo più ignorante.
Qualche tempo fa su istigazione del suo collega Luca Zaia (candidato nel Veneto) Cota aveva presentato una singolare proposta di legge per imporre agli insegnanti, vincitori di cattedre in regioni diverse dalla loro provenienza, la conoscenza del dialetto locale, spacciato come seconda lingua.
Oggi, il novello Alighieri della Padania, ci fa sapere che se (malauguratamente diciamo noi), dovesse vincere le elezioni, imporrebbe nelle scuole della regione la "lingua" piemontese.
Peccato che tale lingua non esista. Infatti in Piemonte esistono tanti dialetti, molto diversi l'uno dall'altro, non assimilabili in un solo idioma.
Il giovanotto, nato in provincia di Novara, ignora ad esempio che il dialetto in uso nel capoluogo piemontese è diverso da quello che si pratica a 19 chilometri di distanza.
A Lombardore Canavese la parola acqua, usata a Torino, diventa "eva". Sempre restando nella provincia di Torino nella parte collinare è ancora in uso un dialetto diverso da quello parlato, ad esempio, nelle Valli di Lanzo o nel pinerolese.
Ancora più accentuate sono le diversità esistenti tra le varie province della regione.
Altro esempio: a Torino la parola bambino in dialetto diventa "cit". In provincia di Alessandria si dice invece "fantoc", con la lettera "c" dolce.
Avere la pretesa di governare il Piemonte senza sapere che in questa regione i dialetti censiti sono più di quaranta, uno diverso dall'altro, non è preoccupante, ma un po' ridicolo.
E non vale per inventare una lingua piemontese citare l'esempio della Sardegna. Nell'isola è stata scelta come base della lingua sarda il modo di parlare nel nuorese, considerato la matrice, per estenderlo in tutta la regione, anche se esistono tutt'ora differenze tra il cagliaritano, il sassarese e le altre province.
Suggeriamo a Cota che propugna la inesistente lingua piemontese di assumere come matrice il monferrino e più precisamente il paese di Callianetto, dove si dice (ma non è certo) che sarebbe nato Gianduja.
L'evoluzione della destra italiana è stata in pochi anni molto significativa. Si è passati dalle tre "I" (Internet, Impresa, Inglese) indicate da Berlusconi, alle tre "P" di Cota: Piemontese, Padania, Pirla.
Diego Novelli, 23 marzo 2010
20100309
zanzotto, andrea
via | emda Paolini, Marco
BESTIARIO VENETO (PAROLE MATE)
Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, 1999
20100217
20091012
zanzotto, andrea
via | emcorrieredelveneto.corriere.it | 12 ottobre 2009
20090913
meneghello, luigi
via | emNon posso correre il rischio che la mia roba somigli a stupidaggini come la "venetizzazione" dei cartelli stradali. Scemenze. Io disapprovo totalmente l'uso rozzamente polemico e strumentale che viene fatto dei dialetti, non solo quello veneto.
Luigi Meneghello, 1997
20090907
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
via | RossClaudio Magris
Le dispute agostane sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raffaele La Capria sulla differenza tra essere napoletani e fare i napoletani.
Essere napoletani — o milanesi, triestini, lucani — significa sentirsi spontaneamente legati al luogo natio in cui ci si è rivelato il mondo, amare i suoi colori e sapori che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio — lo si chiami o no dialetto — indissolubilmente legato alla fisicità delle cose che ci circondano e alla loro musica; pastrocio, per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equivalente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artificiosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesuvio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume folcloristico per mascherare l’insicurezza della propria identità. Chi sproloquia sui dialetti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamentale e ben lo sa chi, come me, lo parla correntemente ogni giorno a proposito di qualsiasi argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spirituale, come l’endogamia, produce malformazioni fisiche e culturali. La diversità è creativa solo quando, nell’affettuoso riconoscimento di se stessa, si apre al riconoscimento e all’amore di altre diversità, egualmente necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasforma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dante, l’amore per l’Arno — ossia per il luogo natale — e quello per il mare, patria universale, sono complementari. Il rullo compressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le autonomie locali è inaccettabile, ma lo è altrettanto il rullo compressore dei micronazionalismi locali, pronti a schiacciare le minoranze ancor più piccole viventi al loro interno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissimile) che vive nel Friuli Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario insegnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considererebbero un rinnegato. Diversi sistemi linguistici hanno diverse possibilità, egualmente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io abbia mai letto — l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» — è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Orinoco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse — non lo so — oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che peraltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pura, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Commedia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scrittore tedesco contemporaneo di Goethe, scorgeva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la trovava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo — come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfabeta — può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi siano i suoi abitanti — come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroromeni che secondo l’ultimo censimento erano 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimysau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se di continuo muore qualche lingua, soggetta come gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se implica essere e sentirsi italiani, il che vuol dire essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale — senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gioco — ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, grande poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e variegato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gradese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplicemente poesia tout court , che può essere anche grandissima esprimendosi nella lingua che le è congeniale, il veneziano di Goldoni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immediatezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure essa può essere molto simpatica nella sua colorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pure questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza volerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po versata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendicazione del dialetto quale espressione di classi subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scomparso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo paese senza indulgere ad alcun pregiudizio antislavo. Miglia ricorda come, quando insegnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat, perché portava le greggi al pascolo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzione scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa esprimersi solo con il linguaggio del suo elementare vissuto quotidiano si esprime fondandosi su un’esperienza reale e può dunque possedere una reale ancorché semplice cultura, capace di unire con istintiva coerenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevole ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofisticata ma orecchiata senza essere fatta veramente propria. Una pretesa cultura «alta» che ricacci brutalmente in basso quelle linfe — da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa — è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cultura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribuiscono a formarla, così come — Dante insegna — i diversi volgari d’Italia hanno costruito il volgare italiano. Reprimere questi vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nelle ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stesso e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat. Ma, come Gramsci insegna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la propria stessa arretratezza e dunque a combattere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative», dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cammino di chi vuol emergere dal buio. Il dialetto non può essere usato regressivamente in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riappropriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dialetto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclore dialettale ostentato e compiaciuto, servo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
Corriere.it | 7 settembre 2009
20090904
Una sciocchezza contrapporre i dialetti all’italiano
via | em(...) senza la cornice della lingua nazionale il dialetto diventa un fatto folclorico, da osteria, da barzelletta paesana.
Università La Sapienza - Roma
unita.it | 14/08/2009
20090831
pastrocio
via | emRicorda Giulio Ferroni che «in Italia i dialetti (e una grande letteratura dialettale) hanno operato (...) in uno scambio con l’identità nazionale, in un’apertura verso la grande cultura del mondo». Considerarli in antagonismo alla Lingua italiana, come taluni pretendono, è semplicemente insensato.
Il blog dialetticon pensa anche a questa gente confusa che evidentemente soffre, non sta bene. Perché se vivi male, pensi male e poi finisce che scrivi male.
L’improvvisata Lingua veneta utilizzata giorni fa da un quotidiano che nemmeno merita citazione, incorre infatti in svariati inciampi.
QUI un florilegio dei momenti migliori: giusto un assaggio, solo i più evidenti in prima pagina… Senza entrare nel merito dei contenuti, ché non se ne esce.
20090820
giulio ferroni
via | emAnche La Padania si perde nel dialetto
Dicono che vogliono “tenere alto il dibattito sull’identità”, coinvolgendo anche “le istituzioni scolastiche e l’informazione televisiva pubblica”: per fare questo affermano in dialetto veneto che «Lengue e dialeti xe el futuro dei zoveni». Ma certo, vista l’incredibile irresponsabilità di certe uscite di questi giorni, si ha l’impressione che i giovani si vogliano portare allo sbaraglio, chiudendo l’Italia futura in una frantumazione territoriale e mentale che l'allontanerà definitivamente dall’Europa, che getterà alle ortiche tutta la grande tradizione internazionale della nostra cultura e della nostra economia. Si dice che, dopo questa prova in dialetto veneto, i solerti zelatori della Padania (nel senso di giornale) offriranno esempi di altri dialetti regionali (piemontese, lombardo, ecc.): ma nella loro feconda immaginazione non si sono resi conto del fatto che le varianti dialettali sono moltissime, che ogni scelta fatta di un modello va a detrimento di altri possibili, ecc. Nella scelta del veneto essi hanno privilegiato la forma veneziana, che è la più facile da usare, perché dotata di una particolare tradizione letteraria, espressione della città “dominante”, che concedeva ben poco spazio di autonomia e di libertà alle aree di terraferma, le quali, sia nel passato che attualmente, presentano caratteri linguistici spesso molto diverse.
Se i leghisti volessero portare fino in fondo i loro propositi, dovrebbero allora pubblicare una miriade di edizioni diverse del loro giornale: una per ogni variante dialettale, non solo quindi fogli in veneziano, ma nella forma di Padova, di Rovigo, di Feltre, di Belluno, di Verona, di Schio, di Cortina d’Ampezzo; ma poi se si continua, nel Veneto e nel resto d’Italia, non se ne esce più... Ma è fin troppo ovvio che tutto ciò non ha nessuna credibilità culturale o linguistica: eppure agisce come un veleno sull’orizzonte della comunicazione, sullo scenario della politica, su vasti settori di cittadini sprovveduti; e proprio per questo richiederebbero di essere respinte nel modo più vigoroso. La scuola, l’università e le istituzioni culturali si sono fatte sentire troppo poco: devono ormai rendersi conto che è il momento di intervenire con forza nei confronti di queste aggressioni alla dignità del nostro Paese e allo stesso futuro delle giovani generazioni. Inutile ricordare ai leghisti che in Italia i dialetti (e una grande letteratura dialettale) hanno operato proprio in uno scambio con l’identità nazionale, in un’apertura verso la grande cultura del mondo, verso quel futuro che sarà disastroso se certi bislacchi propositi troveranno seguito.