20090925

L'albero degli zoccoli

Io sono figlio di quella terra e quindi per me è come fare il ritratto della madre. La madre la riconosciamo davvero quando è perduta. Quando l'abbiamo accanto la madre è una realtà che ci spetta, non ne siamo del tutto coscienti. Quando ci viene a mancare, allora, cerchiamo nella memoria di ricomporre il suo volto, sentire le voci, avere addirittura una sensazione palpabile del ricordo... e questo somiglia molto al cinema.
Ermanno Olmi

Sta tutto in questa frase il significato de L'albero degli zoccoli, il piccolo gioiello del cinema dialettale girato da Ermanno Olmi nel 1978, che gli è valso, oltre a una Palma d'Oro al Festival di Cannes, la riconoscenza e la stima di quanti, non solo bergamaschi, hanno sentito almeno una volta il bisogno di riscoprire un paesaggio, i personaggi, i riti e i modi di vita millenari della propria terra.

Il film si svolge semplicemente seguendo la vita di una cascina della bassa pianura bergamasca, nei mesi compresi fra l'autunno del 1897 e la primavera del 1898.

Il personaggio principale è Batistì, un papà affettuoso diviso fra le preoccupazioni per il figlioletto maggiore, Mènec, al quale è stato offerto il privilegio di andare a scuola (un lusso che nell'indigenza è quasi fonte di vergogna: "Al s'cèt d'ön paisà che 'l va a scöla! Cosa dirà la zét!"), e quelle per un terzo bambino in arrivo. Sulla sua famiglia si consuma, impietosamente, un dramma della povertà e dell'ingiustizia: un giorno Mènec torna a a casa con uno zoccoletto rotto, e il padre, non avendo i mezzi per comprare delle scarpe, decide di tagliare un albero per costruirgliene un paio nuovo. L'albero, come quasi tutti gli animali, gli attrezzi e i locali della cascina, il raccolto e i campi, è proprietà del padrone, e appena questo viene a conoscenza del furto Batistì e la sua famiglia vengono costretti a lasciare tutto e ad andarsene, con le loro poche cose e un figlio ancora in fasce.

Attorno a questa vicenda, che apre, chiude e dà il titolo al film, si intrecciano gli episodi dell'umile vita della cascina e delle altre tre famiglie che la abitano. Quella della vedova Runk, alla quale è da poco mancato il marito e che si trova costretta a lavorare come lavandaia – schiena rotta dalla fatica e mani nell'acqua gelida sotto la pioggia e la neve – per poter sfamare i suoi figli. Quella litigiosa del Finard, alle prese con un figlio a suo dire sfaccendato e segnata, insieme alla pena per la sopravvivenza quotidiana, dalla violenza dell'alcolismo. E infine quella, forse la meno sfortunata, della giovane Maddalena, pudica sposina che troviamo impegnata prima nei preparativi delle sue nozze con un ragazzo del paese, e poi in viaggio in una Milano scossa dalle rivolte per il caro pane e dalle cannonate di Bava Beccaris, assistendo, come in un romanzo manzoniano, a una irruzione della Storia, quella grande e rumorosa, nelle storie minute, silenziose e discrete dei singoli individui.

Interpretato interamente in dialetto bergamasco da contadini e gente della campagna bergamasca senza alcuna precedente esperienza di recitazione, questo è un film eroico, che parla direttamente all'animo delle persone. Solenne e sereno, grave eppur lieve, come le musiche di Bach che l'accompagnano. Un racconto profondo e rispettoso del mondo dal quale veniamo: un patrimonio di cultura popolare, lingue ed esperienza che solo a fatica oggi riusciamo a intuire nei ricordi malinconici degli anziani, e che è andato perso quasi del tutto, sopraffatto dagli imperativi di uno sviluppo che chissà poi se è anche vero progresso.

Con un linguaggio cinematografico scarno ma ben accordato al modo di essere dei contadini di questa terra, Olmi ha voluto mostrarci lo scorrere di una vita essenziale, scandita da ritmi dimenticati. Quelli lenti e poetici della campagna, con i suoi suoni (lo scorrere dell'acqua, il goglottare dei tacchini nell'aia, i rintocchi delle campane), il susseguirsi delle stagioni e il lavoro nei campi; quelli delle storie e dei proverbi raccontati ai bambini davanti al fuoco; quelli consolatori della preghiera e di una religione semplice, al limite della superstizione (perfettamente rappresentata dall'acqua benedetta che la vedova Runk fa bere alla mucca malata per farla guarire, o dalla pozione che la donna del segno, una sorta di maga guaritrice, prepara per liberare il Finard dai "malanni" presi per la rabbia per la perdita di una moneta d'oro).
L'ambiente da lui narrato è certamente in parte idealizzato, -gli sono stati rimproverati in particolare una rappresentazione troppo lirica del mondo contadino, la cancellazione della lotta di classe, i pochi e bonari accenni alla grettezza, l'avidità e gli odi feroci che si consumano nella disperazione della sopravvivenza quotidiana-, ma corrisponde sempre alla realtà storica e consente di ricavarne estratti molto rappresentativi.

Più che nel complesso della trama infatti, la ricchezza e il pregio di questo film si trovano in tanti piccoli, intensi momenti, nei dettagli disseminati nella narrazione come perle lungo un filo: una sera d'inverno passata a fare filò nella stalla, stretti attorno al tepore degli animali, per raccontare qualche storia o recitare il rosario; i contadini riuniti nel cortile del fattore per la pesatura del raccolto che si fermano ad ascoltare incantati la musica di un grammofono; la ventata di leggerezza portata nell'aia dal colorato Frikì, loquace e imbonitore venditore di stoffe ("Al sa la tròa gnè a ròbala chèsta roba ché!"); una canzone urlata nella notte sulla strada di casa per allontanare la paura del buio, di qualche malintenzionato o semplicemente l'incertezza insita in una vita in cui nulla è garantito. E poi quelle particolari raffinatezze, nei dialoghi misurati e nei gesti sinceri dei personaggi, che colpiscono al cuore, come lo sguardo commosso che Batistì, senza osare avvicinarsi, rivolge alla moglie che stringe fra le braccia il figlio appena nato; il timido corteggiamento di Stefano alla sua innamorata Maddalena, quando con una delicatezza infinita le chiede se può "cercarle un bacino"; o ancora le parole con cui la madre di Maddalena, nella cruda scena della macellazione del maiale, cerca di calmare l'animale terrorizzato perchè gli uomini possano incappiargli le zampe, parole che sembrano quasi esprimere dispiacere per la sorte cruenta che gli spetta ("Si dré a fa, a copàla prima del tép! Ché bela, ché. Poéra bestia").

Brevi scene di struggente bellezza, rivelatrici della sensibilità di Olmi verso un passato rurale che ha conosciuto dai racconti della nonna materna e al quale è stato sempre molto legato.
Un passato fatto dalle vite di persone molto povere, ma non per questo miserabili; anzi forti di valori autentici, che non vengono mai meno, nemmeno nell'indigenza estrema. Prima fra tutti la solidarietà: basti pensare alle donne della cascina che si riuniscono per assistere nel parto la moglie di Batistì, che non può permettersi la levatrice; o a nonno Anselmo che non esita ad offrire una scodella di polenta e latte al mendicante Giopa. Poi quel senso di unità e quella straordinaria dignità che si leggono nelle parole dure e già adulte del figlio quattordicenne della vedova Runk, quando rifiuta di dare in affidamento alle suore le due sorelle più piccole. E infine la compassione, la partecipazione composta di tutti al dolore della famiglia di Batistì quando si allontana sul carretto, inghiottita dal buio, dall'ignoto e dall'assenza di storia degli sconfitti.

Io sono stato forgiato dentro questa realtà rurale. Quindi non ho pensato al cinema, ma è stato questo mondo contadino che mi ha stimolato, direi quasi costretto, a fare del cinema, considerando questa realtà come fosse la parte più importante della mia vita.
Ermanno Olmi

4 comments:

Ross ha detto...

Dopo lungo penare...

(Credo di essere la prima blogger al mondo ad aver usato in un post la parola "goglottare". Vi prego di apprezzare lo sforzo). :D

em ha detto...

chapeau

gaz ha detto...

Caspiterina, apprezzo, altro che se apprezzo ;)

Rosaspina ha detto...

Quanti ricordi, questo post, alla prima uscita, qui, nel Piceno, il film in dialetto con i sottotitoli, c'ho portato il "moroso" che non capiva niente . . .Quando è passato in TV, in italiano, con cadenza, l'ho gurdato con i suoceri, contadini marchigiani, che mi facevano notare le somiglianze della vita contadina, qua e là! (come se il tempo del film e il tempo dei loro ricordi fosse lo stesso) . . . Quando l'ho registrato e fatto vedere ai figli . . . l'hanno spento a metà, perchè piangevo come una fontana!

Grazie, apprezzato persino il "goglottare"!

Saluti, R

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